Edizione curata da OTMA2.
Attilio
Martignoni: “Non tutti calzano la stessa anima”
Chi si avvicina a un’artista e ne legge le sue composizioni,
vuole scoprire la verità che si cela dietro. Non si accontenta di cogliere le
emozioni che trapelano dai suoi versi. Vuole arrivare al “movente” del suo fare
poetico. Che significa, in altre parole, toccare il nervo scoperto della sua
anima. Per quanto nascosto e profondo possa essere.
Ma ci
chiediamo: che diritto abbiamo di farlo? Non
rischiamo, forse, troppo? Troppo vaghe le parole poetiche per darci la chiave
di una interpretazione inequivoca. Eppure, la tentazione è forte. Pur col
rischio di venire fraintesi, vorremmo estrapolare un verso che potrebbe essere
illuminante, vera chiave di volta per cogliere il senso autentico che ha spinto
e spinge Attilio Martignoni verso la
sua ricerca poetica.
Scrivo poesie perché
la musica che poco mi ha dato e molto mi ha tolto, ricompensi la mia anima.
La musica è entrata nella sua vita quando era molto giovane
ma non diciamo di più. Probabilmente, ha vissuto questo rapporto precoce e
invasivo con la musica con un misto di amore e odio (“note… spesso da me tradite”)
come capita a tutti quando si ha a che fare con sentimenti forti e coinvolgenti
e, forse, non siamo preparati ad affrontarli.
Per questo, gli auguriamo che la poesia per lui possa essere
davvero un dolce lenimento dell’anima. E torniamo ad occuparci dei suoi versi.
Le poesie di Martignoni
sono il frutto di una breve vacanza nelle Marche. Un momento che il poeta si è
concesso di riflessione e ricordo che traduce in una lingua consapevole del
sostrato colto eppure quotidiana, tendente all’informale, di breve durata ma di
forte intensità.
L’accordo con il ritmo elementare della natura, della vita,
si intreccia a ricordi, a descrizioni di persone amate o stimate che fanno
capolino tra i suoi versi, visi colti nelle loro più genuine espressività (Daniela,
Letizia, Roberta, Sonia, Rachele).
Il
suo linguaggio diventa uno strumento delicato di indagine del circostante,
raramente diventa introspettivo, se non per cogliere realtà universali. Il
rapporto tra esperienza fisica e tensione creativa, che in certi casi si fa
mistica (Come nella poesia “Spirito” Le
pause del silenzio, /sono il cuore pulsante di Dio. /Scandiscono il tempo
“dell'assoluto”) entra nel flusso dell’esistenza con delicatezza, aspirando
a una trascendenza misteriosa che racchiude una verità psicologica che non si
svela facilmente. (“Voglio per gli occhi
nostri luce divina”)
Le
frequenti anastrofi danno al verso cadenze classicheggianti anche se il suo
innato equilibrio lo mantiene lontano dai pericoli dei vertici e degli abissi
poetici. Veleggia a mezza forza e si accontenta di lampi di grande visionarietà
spirituale o di critica sociale sferzante fino alla causticità. Come nelle
poesie “Sicilia” (Profondo di Sicilia è
il mare,/dove sangue d’omertà non lascia traccia) e “Muri” (Anime perse di spirito
meschino./Costruiscono muri.)
Ma il Poeta è geloso della sua intimità. Non ama concedersi,
è reticente, anche se in certi casi sa cogliere con sensibilità assoluta
immagini di una forza che ci sconvolge.
Come in quel verso di grande efficacia, che ha l’energia di
una sentenza ma allo stesso tempo il potere di spiazzare, grazie all’ardito
ricorso a un ossimoro: “Non tutti calzano
la stessa anima”. Un verso che segna un confine, un limite, che può anche
diventare invalicabile.
Ugo
Perugini