Mi piacerebbe definire la poesia di Fabio Viganò, dura e maschia, come fece il Muratori per altro poeta. Con questo artista siamo in pieno dentro il bilinguismo costitutivo della poesia italiana, fatto di lingua e dialetto, nel caso specifico quello milanese.
Anche se in questo libro di poesie, Viganò percorre la strada della lingua, quasi per testare la sua forza e la sua capacità espressiva, egli non dimentica, però, che, nascosto nelle pieghe delle parole, nei nessi sintattici, nella coordinazione grammaticale, il dialetto resta fiamma viva, arguta, tagliente. Spietata a volte.
Viganò nutre una visione pessimistica della vita, scaturita dal comportamento degli uomini (dilagano i quaraquaquà) e di coloro che gestiscono il potere (superbi galantuomini trafficanti). Denuncia il prevalere di principi egoistici e materiali che pervadono ogni azione umana (Tu che dai un prezzo a tutto!) e la sua poesia diventa un’aggressione anche sarcastica nei confronti di un’umanità che crede di sapere (sapere che tintinna).
Viganò va oltre. È capace anche di isolamento e riflessione profonda (sul bagnasciuga dell’oceano del silenzio), sa ripiegarsi su se stesso e soffermarsi su aspetti filosofici, cogliendo con mano ferma immagini di una vividezza e potenza assoluta (tempo e morte, amplesso sudicio e corrotto).
Ma è anche poeta descrittivo, che sa intuire anche nel lavoro cruento del macellaio, la crudezza della vita (In macelleria). E gli bastano semplici tocchi per descrivere una città, un monumento, un paesaggio (Bellinzona, Berna) e anche la sua Milano “colpita” (orrida, livida e tetra). Senza dimenticare il Viganò più intimista, che pesca nei ricordi, amari e struggenti, come quello della metafora della morte della madre, vegliata solo da un cane (Notte di Natale).
La risorgiva forza dell’ironia, della bonarietà, dell’allusione arguta che gli proviene dal dialetto meneghino riemerge, però, quando si accinge a cogliere nella vita di ogni giorno gli aspetti più piacevoli, come l’amore per le donne amate (seni emergono impetuosi) e il vino. E, soprattutto, nell’ultima poesia, dove il dialetto torna a fluire placido, malizioso e faceto nelle allusioni, nascoste sotto una maschera di apparente ingenuità. (El pentiment).
Ugo Perugini